Leseprobe

Pane degli altri

Piove da stamattina, senza tregua. Fili interminabili d’acqua colano giù dalla gronda, passano davanti alla finestra, formano bolle e rivoli, rigano lenti i vetri: occhi accecati dalle lacrime. Un sinistro luccicore verde pervade l’atmosfera livida di questa giornata crepuscolare; mi balza incontro ostile. Verde dalle miriadi di foglie grondanti di pioggia; verde dalla massa compatta della foresta; verde dal prato guazzoso intorno alla casa; verde dal muretto di cinta viscido di muschio. Intorno a me solo verde: cupo, umido, deprimente. Un verde che mi assedia, mi paralizza. E anch’io mi sento diventare verde di nausea, di noia e di malinconia. Maledetto verde!
E pensare che dicono che il verde sia il colore della speranza; un colore che dà tranquillità e sicurezza.
Ma in verità c’è verde e verde…
Come… il verde vivace, allegro, quasi variopinto della macchia sui monti di Gubbio; o il verde argenteo, calmo, serafico degli olivi sui pendii di Assisi; o il verde asciutto, perenne dei cipressi al cimitero; o il verde fresco e rigoglioso del grano appena spuntato, che promette sazietà e abbondanza; o il verde sfumato dei colli all’orizzonte, che diventano sempre più azzurrini man mano che le loro sagome si perdono nella caligine del lago Trasimeno.
Ma questo qui è un verde uniforme, tetro, minaccioso; un verde che divide, che isola. Qui ognuno si rinchiude nella sua casa di chiocciola, e il prato verde, che circonda ciascuna di queste piccole fortezze, è come una barriera che impedisce alle persone di comunicare fra di loro.
È severamente proibito di calpestare il prato!
Ed infatti in Germania è tutto proibito, tutto regolato, tutto ordinato. Si vive una vita sicura, ma senza fantasia, senza sorpresa. La vita scorre sempre uguale, su binari fissi da cui è assai difficile deragliare.
Ma perché sono qui? Perché non sono a casa mia, in Umbria? Perché sono venuta in questa malinconica città tedesca a morire ogni giorno di nostalgia, a diventare ogni giorno un po’ più verde di rabbia? Maledetto verde!
“Grüß dich, Mama! Was gibt’s zum Essen?”
“Ah, ciao Herbert, buona sera! Per cena ti ho preparato degli ottimi spaghetti al ragù”.


Deutschland, Deutschland!

Germania, Germania! Nuova terra promessa! Il tuo nome correva allora sulla bocca di tutti.
Democrazia. Giustizia sociale. Sicurezza. Benessere.
Il miraggio di grandi guadagni promessi dal boom dell’industria tedesca allettava tutti coloro che erano rimasti esclusi al miracolo economico italiano. Ed erano migliaia.
I treni della speranza partivano dal sud carichi di giovani, di donne, di uomini, disperati e decisi a tutto. Scendevano a Norimberga, a Wolfsburg, a Francoforte, ad Amburgo. Infagottati in panni consunti, con le valige di cartone, legate con lo spago, traboccanti di salami e di filoni di pane casereccio; a volte con la chitarra a tracolla. Avevano negli occhi il bagliore dell’ultimo sole, nelle orecchie il fragore del mare che s’infrange sulla spiaggia, nel naso il profumo della zagara e del gelsomino, nel cuore il calore degli ultimi abbracci e dolore del distacco.
Giovanni, Salvatore, Carmine, Maria, Concetta, Annunziata…
Arrivavano pieni di speranza e di buona volontà. Si lasciavano indietro i dolci suoni della lingua materna, gli affetti della famiglia; il calore dei rapporti paesani, le care tradizioni della festa. Fuggivano di fronte alla miseria, ai soprusi, alle faide. Avevano promesso di scrivere, di mandare i soldi a casa, di tornare il più presto possibile. Si aspettavano di venir accolti a braccia aperte. Invece, dopo l’euforia dei primi momenti, trovavano i suoni aspri di una lingua sconosciuta, l’indifferenza di una società estranea e spesso ostile, e quasi sempre la diffidenza e l’emarginazione:
Con uno di questi treni arrivò a Norimberga anche Bruna, in una torbida mattina di novembre.


Il colore della terra


Dopo essersi rinfrescata e rifocillata, Bruna si mise in cammino. Passando davanti al muretto dietro a cui da scolara nascondeva gli zoccoli, fu tentata di levarsi le scarpe e di andare su a piedi nudi. Ma il viottolo era oramai asfaltato e le scarpe che aveva ai piedi non erano fine come quelle che le aveva comprato allora la mamma; erano scarpe solide, tozze, made in Germany, che avrebbero sopportato senza danno una camminata di quel genere molto meglio dei suoi piedi, non più avvezzi a una tale usura.
Arriva su in tempo per vedere la sfera infuocata del sole scomparire dietro alle alture… Un silenzio profondo, un’atmosfera incantata è calata sullo spiazzo deserto: Improvvisamente l’aria tremolante del tramonto dorato si anima. Delle ombre evanescenti, silenziose, si staccano dalla parete della casa, escono dalle nicchie del muro sconnesso, scendono dai rami della focaia. Ma non sono degli spettri tetri e ripugnanti, bensì degli spiriti benigni, giocondi, luminosi: Agnese, giovane e serena, Licenzio aitante e gagliardo, il nonne, la Teresina, il fratellino mai conosciuto. Vengono incontro a Bruna, accolgono festosi la nuova padrona. L’aspettavano da tempo, sapevano che sarebbe venuta. Le danzano intorno, la prendono per mano, la inseriscono nella loro danza. Non già una sarabanda frenetica, ma un girotondo garbato, silenzioso. Girano intorno al pozzo, girano intorno al forno.
Giro, giro tondo, il pane è cotto al forno…
Le parole dell’antica filastrocca risuonano nel suo cuore come un’eco, senza percepirle acusticamente. I fantasmi ora la tirano verso casa, l’invitano a entrare. Bruna gira la chiave nella toppa, loro entrano insieme a lei, si siedono intorno al focolare, acceso. Sulla madia un filone di pane fragrante; Agnese vi ammicca sorridendo. Sul tavolo un fiasco di vino e una bottiglia d’olio; dal camino pendono delle trecce di aglio e di cipolle, come tanti festoni. Palmiro e Giuseppe hanno proprio pensato a tutto… Oppure?!
C’è anche una lampada a pile. Ma Bruna non l’accende; non vuole spaventare i suoi amici; non vuole che scompaiono, quei sacri lari, i custodi della sua casa. La luce crepuscolare, che penetra dalle finestre, e il riverbero del fuoco le sono sufficienti. Si avvicina all’acquaio; apre il rubinetto cromato. L’acqua scroscia giù fragorosamente. Quasi spaventata Bruna lo richiude rapidamente. Sul bordo dell’acquaio scorge un grosso pezzo di sapone da bucato, grezzo, quadrato, angoloso. Come quello che usava Agnese per lavare i figli. Lo strofinava con forza con gli spigoli non ancora smussati sul collo dei marmocchi, mentre questi frignavano e cercavano disperatamente di liberarsi dalla morsa ferrea della madre.
“Ma Agné, oh, la voi spellà viva a ’sta pora fiola!” aveva esclamato una volta Licenzio assistendo ad una di queste drammatiche abluzioni. Per la sua Brunella, la sua unica figlia femmina, aveva sempre provato tenerezza, che non sempre riusciva a celare dietro alla sua rude scorza.
Bruna ora passa nello stanzino da bagno, anche questo nuovo fiammante, le armature in cromo lucente. Sul lavabo di porcellana bianca una saponetta rotonda, rosa, profumata. Bruna apre il rubinetto, questa volta con prudenza. L’acqua viene giù dolcemente, con rumore argentino. Bruna si rinfresca, si lava via la polvere della strada dal viso, dalle mani. Unisce le palme delle mani a mo’ di conca, le riempie d’acqua e beve sorseggiando con voluttà, quasi inebriandosene, la bevanda umile e preziosa, di cui aveva dimenticato il sapore delizioso. Finalmente entra nella camera attigua, semi buia; dalle imposte sconnesse filtra una luce fioca. Dopo un po’ scorge il lettone dei genitori che vi troneggia riempiendo quasi interamente il vano; al lato di esso una sedia impagliata. Con una mano sfiora leggermente la coltre, come con una carezza; al tatto riconosce il copriletto ricamato di Agnese: il copriletto che era stato tutto il suo vanto. Era quasi l’unico capo che Agnese aveva portato come corredo, perché i genitori di lei, adirati che si fosse messa con il figlio di un povero mezzadro, l’avevano lasciata andare via senza dote, poco più che con la camicia addosso. La nonna impietosita aveva regalato alla nipote disgraziata qualche capo di biancheria e quel copriletto, che lei stessa da ragazzina aveva ricamato dalle suore per il proprio corredo. Era in grossa tela di lino grezzo, ricamato a punto francescano in rosso, blu, giallo e verde; il contorno delle figure era tracciato con il filo nero. Vi erano rappresentati tutti i motivi tradizionali della mitologia etrusca e dell’artigianato umbro: draghi, grifi, chimere, colombe, fiordalisi. Ai margini ricorrevano delle scritte in latino, ROMA AMOR, PAX ET BONUM, che racchiudevano le figure in una cabala misteriosa. Da bambina Bruna aveva sempre ammirato quella coperta, che accendeva la sua fantasia. Passava ore intere a contare le figure, a classificarle cercando di capirne il ritmo con cui si alternavano, secondo le forme e i colori. Si sforzava di decifrare le scritte che ancora non capiva e che nemmeno Agnese sapeva spiegarle. Ma lei aveva praticamente cominciato a sillabare proprio con le lettere di quel ricamo. Poi, più grandicella, quando la mamma le ebbe raccontato la storia di questa tela meravigliosa, si era spesso immaginata quella nonna benevola curva sul ricamo: una bella ragazza che sogna il principe azzurro. A lei Agnese aveva sempre permesso di toccarla e di ammirarla, mentre i fratelli si buscavano un paio di ceffoni se si azzardavano a saltare con i piedi sporchi su quella sacra reliquia.
Bruna si guarda intorno; in un angolino intravede un mucchietto scuro. Si abbassa: sono i resti di un paio di zoccoli, consumati, mezzi abbruciacchiati. Qualcuno deve averli sottratti all’ultimo momento al rogo che ha distrutto le povere cose di Agnese. Il letto è invitante. Si spoglia senza indugio. Ripiega con cura la sopraccoperta verso il fondo del letto, così come aveva visto sempre fare la mamma. Si infila fra le lenzuola ruvide, asciutte, odorose di spigo. I fantasmi si sono ritirati, ma Bruna ne avverte ancora la presenza; sa che veglieranno sul suo sonno. Un piacevole senso di pesantezza di impadronisce delle sue membra che sembrano fondersi con il materasso. E nel momento inafferrabile in cui sprofonda nell’incoscienza del sonno, sente come delle radici nascerle dal corpo che penetrando nel suolo sottostante la ricongiungono indissolubilmente con la sua terra.